Corruzione in Grecia e in Italia: una deriva sistemica

Corruzione in Grecia e in Italia: una deriva sistemica tra cultura politica e crisi dello Stato di diritto

Di Evangelos Alexandris Andruzzos

Non sorprende che Grecia e Italia condividano da anni posizioni basse negli indici internazionali sulla percezione della corruzione. Non si tratta solo di deviazioni episodiche, ma di una degenerazione sistemica che affonda le radici in una cultura politica premoderna, dove il principio dell’interesse generale è stato storicamente subordinato a logiche clientelari, corporative e di sopravvivenza partitica.

La recente relazione della Commissione europea sullo Stato di diritto in Grecia non lascia dubbi: ritardi nella giustizia che sfiorano la negazione del diritto, una fiducia popolare in caduta libera nei confronti dell’indipendenza giudiziaria (dal 55% del 2021 al 38% nel 2025), un’opacità cronica nei meccanismi di nomina delle autorità indipendenti, e un sistema legislativo ipertrofico che genera incertezza e inibisce gli investimenti.
In Italia, sebbene alcune riforme siano state tentate, i problemi strutturali non divergono radicalmente: la lentezza dei procedimenti giudiziari, l’eccessiva politicizzazione di alcune istituzioni, e un uso spesso strumentale del diritto da parte del potere politico, contribuiscono a un sentimento diffuso di sfiducia, apatia e rassegnazione.
Ciò che accomuna le due società non è solo la statistica, ma una grammatica politica comune: quella dell’ambiguità tra legalità formale e illegalità funzionale. L’illegalità non è più solo devianza, ma spesso risorsa, strumento di mediazione, canale di mobilità sociale o mezzo di sopravvivenza economica. In tal senso, la corruzione non appare più come una “patologia”, bensì come un “ecosistema” in equilibrio precario.
Uno degli aspetti più inquietanti è la trasformazione del rapporto tra cittadino e Stato. Come sottolineato dal prof. Delli in riferimento alla Grecia, l’uomo politico è passato da “patrono” a “cliente”, in un capovolgimento che svuota le istituzioni della loro funzione regolatrice e le trasforma in distributrici di favori, premi e impunità. Le pubbliche amministrazioni diventano così terreno di conquista, e non strumenti di servizio.
Anche in Italia, soprattutto a livello locale, il fenomeno del cosiddetto “consociativismo” ha favorito per decenni la cooptazione piuttosto che la meritocrazia. In entrambi i Paesi, la legittimazione politica non si fonda più sulla progettualità o sul servizio alla collettività, ma sulla capacità di garantire micro-privilegi, deroghe, eccezioni.
A livello macrostrutturale, siamo di fronte a una crisi dello Stato moderno come portatore di legalità impersonale. La coesione sociale, minacciata dalla disuguaglianza crescente, dall’insicurezza economica e dall’esaurimento delle grandi narrazioni ideologiche del Novecento, lascia spazio a una “neotribalizzazione” della politica: corporazioni, lobbies, clientele, reti informali.
L’Europa, nel tentativo di imporre standard di legalità, si trova davanti a un dilemma: come riformare sistemi in cui il diritto è spesso vissuto come imposizione esterna, e non come patto condiviso? Come creare anticorpi contro la corruzione, se la stessa cultura civica risulta debole o frammentata?
La risposta, a mio avviso, non può essere solo istituzionale o normativa. Occorre un processo educativo di lungo periodo, una “socioterapia collettiva” capace di risignificare il senso del bene comune, di ricostruire un’etica pubblica condivisa, e di valorizzare le esperienze virtuose, spesso marginalizzate, che pure esistono in entrambi i Paesi.
Serve un nuovo umanesimo istituzionale che rimetta al centro la dignità del cittadino come persona pensante e partecipe, e non come suddito da premiare o punire. Solo così potremo uscire dal circolo vizioso della sfiducia e cominciare a costruire, finalmente, uno Stato di diritto non solo formale, ma anche reale.

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