La recitazione come chiave della socioterapia: dal gioco alla consapevolezza collettiva
In molti contesti educativi e terapeutici l’approccio tradizionale è ancora legato al modello “cattedratico”: il docente o l’esperto che espone, gli altri, i discenti che ascoltano. Questo schema, tuttavia, mal si adatta alla socioterapia, che nasce non per trasmettere nozioni dotte dall’alto d’autorità, ma per creare un flusso circolare di comunicazione, scambio e comprensione con autorevolezza in clima amichevole.
La recitazione — intesa non come finzione teatrale fine a se stessa, ma come gioco espressivo, messa in scena, sperimentazione di ruoli e linguaggi — assume un ruolo fondamentale nella conduzione dei gruppi di socioterapia. Perché? Perché permette di entrare in relazione con l’elemento più spontaneo, universale e inclusivo della comunicazione umana: l’emozione condivisa.

Il sorriso come apertura alla partecipazione
Ogni gruppo porta con sé tensioni implicite: la formalità del contesto, la paura di sbagliare, il timore del giudizio, ancora peggio del sempre presente pregiudizio. È compito del facilitatore sciogliere questo nodo iniziale e creare un terreno di fiducia. Non lo fa attraverso discorsi astratti o concetti complessi, bensì con strumenti che toccano immediatamente la sensibilità di ciascuno: la curiosità, la sorpresa, il paradosso, il divertimento, l’allegria.
Quando un gruppo ride insieme, o quando resta sorpreso da un gesto teatrale, cade il muro della diffidenza. Le persone si scoprono simili, complici, uguali nel partecipare a una scena che appartiene a tutti. È in questo spazio che può germogliare la vera riflessione: non come imposizione, ma come naturale prosecuzione di un’esperienza già condivisa.
Il facilitatore come ponte umano
Il facilitatore non è dunque un insegnante che trasmette contenuti preconfezionati, ma un ponte umano. La sua funzione è mettere in comunicazione i diversi punti del gruppo, rendere accessibile a tutti il percorso, e far sì che nessuno resti escluso dalla dinamica comune.
Il suo “gioco recitativo” non è un atto narcisistico, ma una tecnica di mediazione: è il linguaggio universale del corpo, della voce, dell’ironia, della leggerezza. Attraverso questo linguaggio, ogni partecipante si sente autorizzato a entrare, con i propri tempi e le proprie risorse, nella trama collettiva.
Dal gioco all’analisi
Questo primo approccio “giocoso” non riduce la profondità del lavoro, ma la prepara. Dopo aver sciolto i nodi della formalità e aver conquistato l’attenzione con strumenti semplici e comprensibili, il gruppo può dedicarsi a un’analisi più articolata e profonda dei temi emersi. In questo senso, la recitazione non è evasione, ma metodologia pedagogica e sociologica: apre la strada alla riflessione critica rendendo possibile una partecipazione reale e non forzata.
Socioterapia come esperienza condivisa
La socioterapia, dunque, non è una lezione ex cathedra, ma un gioco tra le parti, in cui ognuno mette qualcosa di sé e riceve qualcosa dagli altri, come vasi comunicanti. È un processo creativo, in cui la leggerezza iniziale non nega la serietà del percorso, ma la rende umanamente percorribile. Il divertimento e la semplicità non sono orpelli, ma condizioni essenziali perché la comunicazione diventi profonda, autentica, trasformativa.
In questo senso, la recitazione e la leggerezza del facilitatore non rappresentano un ornamento, ma la vera chiave sociologica di un metodo che, anziché imporre verità dall’alto, costruisce ponti di senso tra individui che, solo insieme, possono generare nuove forme di comprensione e di cura sociale.
Evangelos Alexandris Andreuccio
Consulente comportamentale, educatore.