Mercati e poteri politici, la democrazia in discussione 

Mercati e poteri politici, la democrazia in discussione

Di Evangelos Alexandris Andreuccio 

Economia degli Oligopoli e Nuove Disuguaglianze: una lettura sociologica

Il fenomeno della concentrazione del potere economico nelle mani di pochi non è soltanto una questione tecnica di funzionamento dei mercati, ma un problema sociale e culturale che mette in crisi le stesse basi della convivenza democratica. Ci troviamo di fronte a un paradosso storico: ciò che era nato come promessa di libertà – il mercato aperto, competitivo e plurale – si trasforma progressivamente in meccanismo di esclusione, di chiusura e di dominio oligopolistico.

Dal punto di vista sociologico, questa dinamica rappresenta un processo evolutivo in cui il teorico diventa pratico, e il pratico travolgente.

Karl Polanyi, nella sua grande opera La Grande Trasformazione, aveva già segnalato come la logica autoregolata del mercato portasse a forme di disintegrazione sociale, a una “mercificazione” della vita che mina il tessuto stesso delle società. Oggi, la globalizzazione e la digitalizzazione hanno reso questo processo ancora più radicale: non è solo l’economia a concentrare il potere, ma la conoscenza, la comunicazione e persino l’immaginario collettivo.
Max Weber parlava del “disincanto del mondo” e della crescente razionalizzazione burocratica: oggi potremmo tradurlo in “tecnocratizzazione globale”. Le grandi piattaforme tecnologiche, i colossi finanziari, le catene alimentari ed energetiche non sono più semplici attori economici: diventano istituzioni totali (per riprendere Erving Goffman), capaci di orientare il comportamento, il consumo, le relazioni, perfino la percezione della realtà.
Pierre Bourdieu ci offre un’altra chiave di lettura: l’accumulazione non riguarda solo il capitale economico, ma anche quello culturale e simbolico. Quando poche multinazionali detengono la capacità di diffondere narrazioni, di definire il linguaggio politico e mediatico, assistiamo a un fenomeno di violenza simbolica che rafforza l’ineguaglianza e rende opaca la possibilità di un reale cambiamento.
Il mio maestro di pensiero epistemologico e sociologico, Franco Ferrarotti, polemico contro il tecnicismo formale quantofrenico che misura tutto con cifre, affronta l’uomo come problema aperto da leggere, comprendere e cambiare con l’ottimismo della ragione e della volontà, secondo la filosofia personale messa in confronto con quella del gruppo di appartenenza. La dialettica del confronto è la quintessenza della sociologia e la socioterapia è l’applicazione del metodo di ricerca collegiale del senso della vita propria.
I dati empirici parlano chiaro:
Quattro aziende controllano la pubblicità digitale globale.
Cinque gestiscono le infrastrutture del cloud, cioè la base stessa della nostra comunicazione e dei nostri archivi di conoscenza.
Tre colossi bancari dominano oltre metà dei depositi negli Stati Uniti.
Questa oligarchia economico-tecnologica non produce solo squilibri materiali, ma costruisce una nuova forma di assolutismo dispotico: un potere che non ha volto politico nel senso tradizionale, ma che esercita un’influenza pervasiva e difficilmente contrastabile. Come sottolinea Zygmunt Bauman, la modernità liquida dissolve i vecchi punti di riferimento, ma allo stesso tempo rende l’individuo più vulnerabile a nuove forme di dominio, invisibili ma pervasive.
Il problema, dunque, non è più se il liberalismo o il mercato abbiano “fallito”, ma se la società sia ancora in grado di immaginare un nuovo equilibrio tra libertà individuale, giustizia sociale e limiti istituzionali al potere. La sfida è evitare che la promessa di libertà si rovesci nel suo contrario: una forma di neo-feudalesimo tecnologico, dove i sudditi non sono più vincolati dalla terra, ma dai dati, dagli algoritmi e dalle reti di dipendenza economica e sociale.
In questo senso, la questione è eminentemente sociologica: riguarda la capacità collettiva di resistere e reinventare spazi di pluralismo, di innovazione diffusa, di autonomia, di personalismo maturo e colto nella formazione a vita.
Se, come diceva Habermas, la sfera pubblica è il cuore della democrazia, oggi essa rischia di essere privatizzata, catturata da pochi nodi di potere globale. La posta in gioco non è soltanto la giustizia distributiva, ma la stessa sopravvivenza della libertà come pratica sociale condivisa.
L’analisi diventa ancora più incisiva se si guarda al ruolo di paesi come Italia e Grecia nella divisione internazionale del lavoro. Entrambe, seppure con caratteristiche diverse, si trovano schiacciate tra due forze contrapposte: da un lato l’eredità di uno Stato sociale europeo, costruito nel dopoguerra e fondato su meccanismi di redistribuzione, di welfare e di diritti collettivi; dall’altro la pressione incessante dei grandi centri finanziari globali, che attraverso la leva del debito, dei mercati e delle infrastrutture tecnologiche impongono regole e vincoli spesso incompatibili con la sostenibilità sociale.
L’Italia, con la sua base manifatturiera frammentata e legata a distretti territoriali, e la Grecia, segnata dal peso del turismo e delle importazioni energetiche, rappresentano due esempi emblematici di come la globalizzazione abbia accentuato la dipendenza da logiche esterne: catene globali del valore, piattaforme digitali sovranazionali, mercati finanziari transnazionali. Entrambe hanno vissuto, in forme diverse, la perdita di sovranità economica nel decennio delle crisi: il commissariamento economico della Grecia durante la crisi del debito e i vincoli strutturali imposti all’Italia nel quadro dell’austerità europea sono testimonianze concrete di come la capacità di governo nazionale venga subordinata a decisioni prese altrove.
In questa dinamica, lo Stato sociale europeo – fondato sull’idea di equità e redistribuzione – viene progressivamente eroso. Sanità, istruzione, pensioni e politiche attive del lavoro sono costrette a ricalibrarsi secondo la logica del contenimento della spesa e della competitività globale, più che su quella dei diritti universali. Italia e Grecia, collocate nella periferia produttiva dell’Europa, diventano così laboratori di sperimentazione delle nuove disuguaglianze: precarietà, fuga di cervelli, impoverimento del ceto medio, emigrazione giovanile, trasformazione dei servizi pubblici in beni di mercato.

Il paradosso è evidente: le conquiste sociali che avevano reso l’Europa un modello di equilibrio tra economia e coesione sociale e solidale, vengono ora progressivamente smantellate sotto la pressione di un oligopolio economico-finanziario che non solo concentra la ricchezza, ma svuota le democrazie nazionali della loro capacità decisionale. Italia e Grecia diventano così esempi paradigmatici di una sfida che riguarda l’intero continente: come difendere la giustizia sociale e la democrazia di fronte a un mercato globale che, privo di contrappesi, tende inevitabilmente al dominio oligopolistico. Quale rimedio anteporre all’individualismo patetico dei clienti del sistema economico, per ritrovare il gusto della liberà d’espressione e autonomia reale di comportamento? Ecco la vera questione posta davanti alla disciplina sociologica, di rispondere senza verbosità teoretica, ma con fatti concreti e applicabili nella società civile, educata ad essere ipnotizzata nella zona di comodo di cliente del sistema, consumatore teleguidato dai poteri istituzionali, ma anche subdoli, subliminali, dell’economia e del mercato drogato da sempre nuovi bisogni inventati per schiavizzare le persone e trasformarle da cittadini in clienti.

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